Da Lascaux all’AI
Il volto che ho cancellato.

Oggi ho cancellato un volto.
Non con violenza. Con un clic.
Un algoritmo, e l’identità di una persona si dissolve in pixel neutrali. L’ho fatto per protezione, per privacy. Mentre osservavo quella faccia svanire nel nulla digitale, sostituita da un’altra con la stessa espressione ed emozione ma con diversa fisionomia, pensavo: chi sono io per decidere cosa resta del “reale”?
È una domanda tecnica, etica, ma soprattutto politica. Perché chi controlla la simulazione controlla la percezione del reale. E quindi il consenso.
Ogni giorno, milioni di persone riscrivono la realtà con la stessa facilità con cui si corregge un refuso. Midjourney, DALL-E, Stable Diffusion… Sussurriamo parole a macchine e loro ci restituiscono mondi che non sono mai esistiti.
Rappresentazione e simulazione
Rappresentare significa evocare, offrire un’immagine che sta per qualcos’altro. Le pitture rupestri di Lascaux mostrano bisonti e cacciatori, ma non pretendono di far correre davvero quegli animali sulle pareti della grotta. Evocano la caccia, ne fissano il ricordo o l’intenzione.
Simulare, invece, significa costruire un modello che imita il comportamento di un sistema e farlo funzionare autonomamente nel tempo. È una rappresentazione che si mette in moto: la si esegue, se ne osservano i risultati, e da questi si impara o si interviene sulla realtà.
Ma questa distinzione, così netta sulla carta, diventa scivolosa nella pratica. Anche Lascaux aveva probabilmente una funzione rituale-magica: non solo descrivere la caccia, ma influenzarla, renderla propizia. Era già più che semplice evocazione. Già conteneva un germe di simulazione operativa.

Il laboratorio dell’inganno
Oggi quel germe è esploso. In ogni studio, navighiamo quotidianamente confini che si assottigliano fino a scomparire.
Simulazione protettiva.
Stamattina usavo Nanobanana (Gemini 2.5 Flash, un modello AI che permette anche di modificare immagini esistenti) per proteggere l’identità di un bambino nella foto. Ho caricato l’immagine, richiesto la modifica del volto, e il sistema l’ha sostituito mantenendo espressione e contesto. La scena è rimasta reale, ma la persona è diventata irriconoscibile.
Ma lo stesso strumento che uso per protezione può diventare altro. Per gioco, inserisco me stessa in una situazione in cui non sono mai stata: simulazione ingannevole. Anche se per scherzo, è importante riconoscere i rischi concreti: un deepfake creato oggi, se diffuso impropriamente, può produrre prove false, manipolare opinioni o compromettere reputazioni, sollevando rilevanti questioni etiche e legali.

(Per altro, quando carico un’immagine e richiedo modifiche, sto potenzialmente contribuendo ai dataset e alle annotazioni che alimentano l’AI, diventando involontariamente parte del processo di addestramento. Ogni immagine caricata, ogni modifica, ogni accettazione o rifiuto possono insegnare all’AI a comprendere meglio mondo visivo e intenzioni umane. Il consumo del prodotto dunque diventa anche processo di miglioramento).
A volte mi trovo a usare l’AI come Simulazione didattica. Per un corso di guida ho generato scenari di incidenti impossibili da ricreare nella realtà: collisioni frontali ad alta velocità, aquaplaning in autostrada, scoppio di pneumatici in curva. Nessuno si è fatto male nella creazione di queste simulazioni. Ma la risposta fisiologica nei partecipanti era reale: tachicardia, sudorazione, istinto di frenata. Il cervello non distingue completamente tra pericolo simulato e pericolo reale quando la simulazione è abbastanza convincente.
Simulazione identitaria. Sui social sono tre persone diverse. Quale sono “io”? Il timido della foto profilo A? L’estroverso dell’account B? Il provocatore dell’identità C?
Jorge Luis Borges diceva:
“È l’altro, è Borges, quello a cui capitano le cose. Non so quale dei due scrive questa pagina”.
Quale di me preme questi tasti? La simulazione non si limita a modificare immagini: crea identità multiple, frammentate, sovrapposte. E tutte sono vere. E nessuna lo è completamente.

Simulazione empatica: ho creato una serie di immagini che mostrano il mondo come lo vedrebbe una persona incapace di riconoscere i volti. I visi sono sfocati, indistinti, intercambiabili. È un tentativo di vedere attraverso gli occhi di qualcun altro. Di simulare non la realtà esterna, ma l’esperienza interiore di qualcun altro.
Ma il territorio più oscuro è quello della Simulazione speculativa. Deepfake di me stesso che dicono cose che non direi mai. Cloni vocali generati con ElevenLabs che imitano la mia voce con ogni inflessione, pausa, tic linguistico…
Sperimentazione, mi giustifico. Ricerca artistica? Ma ogni tecnica che masterizzo potrebbe essere usata per distruggere reputazioni, fabbricare confessioni, costruire alibi. La stessa identica tecnica. La stessa identica competenza.
Walter Benjamin ci mise in guardia nel 1935: nell’epoca della riproducibilità tecnica, l’opera d’arte perde l’aura ma guadagna potere di massa. E il potere di massa della simulazione perfetta oggi è inquietante nella sua portata.
L’Arte: la simulazione dichiara se stessa
Eppure c’è una forma di simulazione che attraversa millenni senza collassare in nichilismo etico. L’arte.
Quando guardi “Guernica” di Picasso non pensi “Questo è un reportage fotografico fedele del bombardamento”. Sai che è interpretazione. Sai che è emozione resa visibile, che è verità attraverso deformazione. Eppure ti commuove. Eppure ti rivela qualcosa di essenziale su quell’orrore che mille fotografie realistiche non avrebbero catturato.
L’arte simula per dire verità più profonde dei fatti. È la simulazione che ci libera dalla tirannia del letterale.

Francis Bacon dipingeva corpi deformati orribilmente. Trittici di carne urlante, figure contorte in spazi claustrofobici. Non assomigliavano a nessun essere umano esistente. Eppure catturavano qualcosa di essenziale sulla condizione umana, fragilità, angoscia, l’impossibilità di sfuggire alla propria carne, che un ritratto fotografico realistico non avrebbe mai raggiunto.

Monet dipingeva lo stesso covone di fieno in venti condizioni di luce diverse. Non stava “copiando la realtà”. Stava simulando la sua esperienza percettiva della realtà. Quei covoni erano più veri della fotografia perché includevano tempo, memoria, emozione.

Ecco la differenza cruciale: l’arte dichiara il proprio statuto di simulazione.
C’è un patto implicito tra artista e spettatore. Un accordo che dice:
“Entriamo insieme in questo spazio dell’immaginazione.
Tu sai che sto mentendo.
Io so che tu sai.
E in questa mutua consapevolezza, troviamo una forma di verità più autentica della semplice corrispondenza ai fatti”.
Certo, questo patto non è sempre rispettato (il realismo socialista spacciava propaganda per arte). Ma quando il patto viene tradito, quando l’arte pretende di essere documentazione o la propaganda si maschera da estetica, sentiamo immediatamente che qualcosa è andato storto.
Collasso dell’indistinguibilità?
L’AI generativa ha reso questa distinzione ancora più scivolosa.
ChatGPT può scrivere sonetti che “sembrano” poesia.
DALL-E può generare quadri che “sembrano” capolavori.
Ma c’è arte senza intenzione consapevole?
L’AI, per quanto ne sappiamo, non possiede intenzione. Non sceglie. Non soffre. Non gioisce. Genera pattern probabilistici basati su miliardi di esempi. La creatività, se esiste, emerge solo attraverso l’interazione con l’utente umano.
Quando guido l’AI con centinaia di iterazioni, quando seleziono tra mille varianti quella che “risuona” (come direbbe Calvino), quando costruisco prompt complessi stratificati su ore di lavoro, sono io a introdurre l’intenzionalità. L’arte nasce dall’interazione uomo-macchina, ma la responsabilità rimane umana.
Quando con l’AI creo “paesaggi emozionali”, immagini che non esistono in nessuna geografia ma che catturano stati d’animo ineffabili, e li presento come opere d’arte, sto rispettando il patto. Sto dicendo: “Questo è come mi sento”.
Ma se generassi la stessa identica immagine e la spacciassi per una fotografia del Tibet, per reportage da un fronte di guerra, per la prova di un crimine? Il patto si spezza. E tutto collassa.
Quando l’arte viene spacciata per documentazione. Quando la pubblicità si nasconde dietro pretese estetiche. Quando i deepfake politici vengono difesi come “espressione creativa”. Quando la simulazione malevola si traveste da simulazione artistica.
Il patto si rompe. E tutto collassa nella stessa indistinguibilità tossica.
L’arte è simulazione che punta verso qualcosa di reale: un’emozione, una verità umana, un’esperienza condivisa.
La simulazione ingannevole è finzione che pretende di essere reale.
La differenza non sta nella tecnica. Sta nell’intenzione e nell’onestà dell’autore e della relazione con chi osserva. E oggi, sempre di più, nella capacità di sviluppare nuove grammatiche di fiducia, protocolli che ci permettano di distinguere la simulazione che rivela dalla simulazione che inganna.
Continua nella Parte 2: “Frattura generazionale“
Tutte le immagini sono state create o modificate con intelligenza artificiale generativa, a partire da fotografie reali o prompt testuali.
