Frattura generazionale

“In quell’Impero, l’Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la Mappa dell’Impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più (…) La Mappa dell’Impero aveva l’Immensità dell’Impero e coincideva puntualmente con esso”.

Frattura generazionale.

Jorge Luis Borges, in quel racconto folgorante di un solo paragrafo (Dell’esattezza nella scienza), aveva intuito perfettamente il futuro. La mappa che diventa così perfetta da  sostituire il territorio stesso.

Ma cosa succede quando la mappa diventa più attraente del territorio?
Quando preferisci la simulazione alla realtà perché la puoi controllare, editare, perfezionare? Quando il territorio – grezzo, imprevedibile, spesso deludente – diventa irrilevante?
Stiamo vivendo il cortocircuito borgesiano finale.
Le nuove generazioni crescono nella mappa come nel territorio.
Non è che preferiscano la simulazione, semplicemente per loro la distinzione non esiste più. La mappa non ha sostituito il territorio: si sono fusi in un’unica superficie indistinguibile.

Chi porta la memoria di un mondo diverso – quello dove reale e simulato erano distinguibili – ha un framework epistemologico che funzionava quando Photoshop era uno strumento professionale e le fotografie “dimostravano” qualcosa. Quel framework è collassato.

Mentre alcuni si chiedono “Ma dov’è il territorio vero?”, i nativi rispondono perplessi “Cosa intendi per ‘vero’?”.

 

 

Nativi del dubbio vs migranti della certezza.  

Quando l’AI permette di generare video da semplici prompt o di iterare mille variazioni di un’idea in un pomeriggio, il sistema di validazione precedente diventa obsoleto.
Una generazione ne porta la cicatrice: la memoria di un mondo dove reale e simulato erano distinguibili.
Quando vede un’immagine straordinaria, il suo primo impulso è ancora: “È vera?”
Solo dopo, con sforzo, con addestramento, arriva la domanda diversa: “Importa che sia vera?”.

I bambini di otto anni oggi non conoscono il concetto di “fotografia non modificata”. Stanno semplicemente abitando la realtà per quello che è diventata. Per loro, ogni immagine è fluida, editabile, componibile.
Hanno usato filtri prima di vedere il proprio volto senza augmentation.
Hanno creato avatar prima di sviluppare una teoria coerente del sé.
È una condizione pienamente cyborg, direbbe Donna Haraway: identità distribuite tra corpi, codici e interfacce.
Sanno usare app di face-swap prima di aver consolidato il concetto di identità fissa.
I loro primi baci potrebbero accadere in VRChat.
Le loro prime battaglie politiche si combatteranno con meme, simulazioni compresse di idee complesse.

La domanda “È vero?” presuppone un’ontologia stabile: esiste una verità oggettiva da verificare.
Ma quando ogni immagine è fluida per default, la domanda si trasforma: “È utile? È efficace? Funziona emotivamente?”.
Non è relativismo. È un altro sistema di validazione.

Un TikTok può essere tecnicamente “falso” ma emotivamente accurato nel catturare uno zeitgeist. Un meme inventato può essere più “veritiero” di un fact-check nel comunicare una dinamica sociale. La verità diventa contestuale, distribuita, verificata attraverso network di fiducia piuttosto che attraverso l’autorità dell’evidenza visiva.

Pierre Lévy lo aveva anticipato: nell’intelligenza collettiva, la verità è anticipata dall’efficacia.

“La rappresentazione non viene dopo il reale, non è il suo doppio. È il reale stesso che emerge attraverso la simulazione” – Baudrillard.

Chi cresce oggi lo sa istintivamente. Non distingue tra “vita online” e “vita reale” perché quella distinzione implica una gerarchia che non esiste. Tutto è vita, tutto è reale, tutto produce effetti.
Certo, anche dentro questa fusione, restano ancore non simulabili: la materia, il corpo, la morte. Punti in cui il linguaggio si arresta e il mondo insiste. Ma anche queste esperienze passano ormai attraverso codici simbolici, interfacce, rappresentazioni.

La simulazione non è più l’eccezione.

L’AI generativa ha fatto una cosa semplice: ha reso la simulazione accessibile quanto la scrittura.
Prima, creare una falsificazione convincente richiedeva competenze tecniche, ore di lavoro, abilità artistiche. C’era una barriera all’ingresso che fungeva da filtro implicito. Non proteggeva davvero la nostra capacità di discernere, ma almeno rallentava il processo.
Ora chiunque può generare contenuti visivi complessi con un prompt di testo. La simulazione è linguaggio universale.

Conseguenza: se tutto può essere simulato facilmente, nulla può essere creduto facilmente.
La fotografia ha perso il suo statuto di prova.
Il video ha perso la sua funzione testimoniale.
La memoria storica documentata visivamente è diventata contestabile per default.
Non è un problema teorico. È un problema materiale con conseguenze reali.

Forse però il punto non è cosa abbiamo perso, ma cosa sta emergendo.

 

Nuovi protocolli di validazione.

Chi è cresciuto sapendo che ogni immagine può essere modificata sta sviluppando competenze che chi viene dal paradigma precedente fatica ancora ad acquisire:

Lettura contestuale: valutare credibilità attraverso la rete di relazioni, non attraverso l’evidenza isolata.
Verifiche distribuite: incrociare fonti attraverso network di fiducia piuttosto che affidarsi all’autorità centrale.
Autenticità emotiva: riconoscere pattern di comportamento genuino attraverso canali che non passano dalla verifica visiva.

Un altro protocollo di validazione sostituisce la nostalgia della verità oggettiva.

Se la simulazione ha dissolto la fiducia nei segni, allora siamo costretti a inventare nuovi modi per costruirla.
Quando tutto è potenzialmente falso, ecco che la verità si sposta dal contenuto al contesto, dal singolo dato al suo ecosistema.

Tracciabilità: la prova non è più nell’immagine, ma nella sua genealogia. Ogni contenuto viene accompagnato da metadati, watermark, certificazioni di provenienza che ne attestano il percorso. Anche i modelli di rilevamento dei deepfake e le firme crittografiche AI diventano strumenti di fiducia temporanea, consapevolmente provvisori. La verità diventa processuale, non istantanea.

Coerenza comportamentale: ciò che si valida non è l’evento, ma la continuità. La fiducia si costruisce nel tempo, nella ripetizione coerente dei gesti, dei toni, delle interazioni.

Reputazione algoritmica: le intelligenze stesse partecipano alla verifica, incrociando i propri output in una sorta di peer review automatica. La fiducia si distribuisce anche tra sistemi non umani.

Esperienza incarnata: la realtà torna a passare per il corpo. Crediamo a ciò che possiamo mettere alla prova, manipolare, esperire direttamente, non solo a ciò che vediamo rappresentato.

Etica comunitaria: la validazione diventa una pratica collettiva. Le comunità costruiscono standard di trasparenza, dichiarazioni di uso, protocolli di responsabilità condivisa.

Trasparenza narrativa: mostrare come un contenuto è stato generato (il prompt, le scelte, il processo) diventa segno di autenticità. Il “making of” è parte della verità, non la sua ombra.

 

Reimparare il reale dentro la sua copia.

La simulazione ha dunque un doppio volto: disintegra le certezze, ma attiva nuovi filtri, nuove competenze, nuovi gesti di fiducia.

Nuove grammatiche di fiducia.

Non ci riporta indietro alla prova oggettiva, ma ci spinge avanti verso una verità relazionale, tracciabile, condivisa.
Invece di perdere il reale, lo stiamo imparando di nuovo, dentro la sua copia.

 

Simulare e credere.

Il problema non è che le nuove generazioni non distinguono vero da falso, ma che stiamo perdendo un linguaggio comune per decidere cosa conta come evidenza.

Come si trasmette la memoria storica quando ogni documento visivo è opinabile?
Come si costruisce testimonianza collettiva quando la prova visiva non prova più nulla?
Come si negozia realtà condivisa quando ognuno opera con protocolli di verifica diversi?

Abiamo l’urgenza, la necessità di sviluppare nuovi framework per stabilire cosa chiamiamo “reale” quando il reale non è più dato ma costruito, negoziato, distribuito.

L’esperimento è in corso e i risultati non sono ancora chiari. Ma fingere che il territorio esista ancora separato dalla mappa non è più un’opzione.

Continua nella Parte 3: “La verità è scelta o manipolazione?

 

Tutte le immagini sono state create o modificate con intelligenza artificiale generativa, a partire da fotografie reali o prompt testuali.

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